Abituarsi al Marocco

Potrei iniziare questo articolo scrivendo quanto sia magnifico il Marocco, quanto mi abbia lasciato dentro, quanto sia bello e sublime, ecc ecc. Ma facendo così tralascerei forse la cosa più interessante di tutto il viaggio, e cioè lo scontro tra civiltà che è accaduto in me durante questo soggiorno.
Premettendo che non penso di essere un tipo di viaggiatore che cerca una pizzeria italiana in Cambogia o che si lamenta se in Messico non accettano gli euro, ammetto però di essere legato alle mie abitudini, siano esse derivanti dalla mia storia personale o dall’appartenenza ad un certo tipo di società.
Racconterò quindi dei turbamenti che ho provato durante questo viaggio, e delle soluzioni che ho trovato per abituarmi al Marocco.

La mancia necessaria

La prima cosa che ho visitato a Marrakech è stato il bazar, un enorme mercato grande circa venti ettari diviso in souk, cioè zone dedite alla vendita di un solo prodotto artigianale. Ti può capitare quindi di girare per una via in cui vendono solo tessuti, in una piazza con solo fabbri o in una strada piena di intagliatori del legno. Ed è inutile dire che questo bazar è un labirinto pazzesco, un delirio di babbucce, libri antichi, profumi, selle, tappeti e tonnellate di paccottiglia varia.

artigiano nel souk di MarrakechLa cosa migliore da fare per visitare questa baraonda è naturalmente girare a caso. Non è nemmeno pensabile adottare un itinerario. Ma arriverà il momento in cui il bisogno di orientamento si farà sentire. Ed è proprio in quel momento che ho scoperto che la teoria dell’evoluzione è vera, perché i marocchini hanno sviluppato una ghiandola, che chiamerò la “ghiandola del Cicerone”, per cui non appena intuiscono che un povero forestiero si vuole orientare e pensa di prendere una mappa dalla tasca posteriore dei pantaloni, loro accorrono e ti porgono la domanda più semplice del mondo: “Dove devi andare?”. Tu puoi rispondere “non lo so”, oppure “non ho bisogno d’aiuto, grazie”, ma loro si faranno più insistenti, tipo il signor Anderson di Matrix, e la cosa può diventare molto stressante. Io ho trascorso tutto il primo giorno ad evitare aiuti per orientarmi e ad incaponirmi nel trovare la strada giusta con la mappa. Poi ho ceduto. Ho abbandonato la mappa dei souk e ho chiesto aiuto ai numerosi marocchini dotati di “ghiandola del Cicerone”. Ne ho guadagnato in salute, chiacchiere, tempo e amicizie. Tutto per pochi centesimi, quelli della “mancia necessaria”.

souk delle spezie a Marrakech

Dal tramonto all’Alba

Una delle ragioni che mi ha fatto accettare il concetto di “mancia necessaria” è stato il fatto che il primo giorno a Marrakech mi sono letteralmente perso tra i souk. Ma perso di brutto, del tipo che giravo per una strada e mi ritrovavo in una piazza. Prendevo un’altra strada e mi ritrovavo nella stessa piazza. Altra strada e sempre la stessa piazza. Mi sentivo come un topo in gabbia. Come se non bastasse nel frattempo si era fatta sera. E dentro di me risuonavano le frasi lette su guide e siti internet: ”non rimanere fuori dopo il tramonto”, “ritorna in hotel prima del calar del sole”, e via dicendo. Nel frattempo, mentre dicevo tra me e me “vabbè, ti pare, saranno le solite esagerazioni delle guide”, sento una mano sfiorarmi la schiena. Mi giro ed erano un gruppo di ragazzini. Continuo a camminare, e sento di nuovo qualcuno toccarmi il marsupio. Mi giro di nuovo ed erano gli stessi bambini di prima che sembrava giocassero a Un due tre stella. Prima di essere derubato li ho guardati con tono duro, per intimidirli, e questi, per fortuna, se ne sono andati via.

veduta di MarrakechA controbilanciare questo fatto spiacevole, però, ci ha pensato Rashid, lo spacciatore adolescente dai denti scurissimi della medina di Fes. Ogni giorno provava a vendermi il kif, una droga leggera marocchina a base di hashish, e i nostri discorsi più o meno erano così: ”Ehi italiano, vieni a fumare con me un po’ di kif” “No, guarda, io non fumo” “Ma dai, con questa faccia non ti fai le canne?” “Beh, non so come interpreti la mia faccia, ma davvero non mi faccio le canne” “ vabbè ciao” “ciao italiano”. Finché un giorno, forse per accaparrarsi la mia fiducia, mi fa vedere la tessera universitaria di una ragazza italiana, millantando di come fosse una sua grande amica “Vedi, questa ragazza fumava tutti i giorni con me” “Si, ma io continuo a non fumare” “Allora tu non sei italiano” “Ciao Rashid” “Come sai il mio nome?” “Me l’hai detto ieri. Ciao Rashid” “Ah ok, ciao italiano”. Naturalmente la prima cosa che ho pensato è stata che quella tessera provenisse da chissà quale portafogli rubato, quindi ho memorizzato il nome di quella ragazza e, una volta tornato, l’ho cercata su facebook. Una volta trovata, le ho chiesto se avesse per caso perso il portafogli in Marocco e le mi ha risposto di no. Io ho continuato chiedendole se allora avesse perso la tessera universitaria, e lei, un po’ stizzita, mi ha risposto che l’aveva regalata a Rashid, il suo compare di fumate marocchine.

scrivani a rabat

Un divieto categorico

E, a proposito di spacciatori, è un po’ strano vederli offrire a voce alta tutta la loro mercanzia, come se fosse il cocco bello in spiaggia. Oltretutto tirano fuori pezzi di hashish e li mettono in bella mostra, senza timore alcuno. Quasi fosse legale. Ma poi li vedi avvicinarsi piano piano al tuo orecchio e ti dicono a bassissima voce “Ma se vuoi un po’ di alcool, seguimi da questa parte” e partono guardinghi, girandosi per vedere se li stai seguendo. L’alcool nei paesi musulmani è severamente proibito, quindi niente birretta fresca serale, a meno che non andiate in qualche posto internazionale, come ad esempio l’hotel dove alloggiate. A Rabat mi è capitato di vedere, nel bar dell’hotel, un gruppetto di uomini marocchini che schiamazzavano bevendo birra. Ma si divertivano proprio alla grande, con pacche fragorose sulle spalle, grasse risate e magari si raccontavano anche barzellette sconce. Io ho deciso di passare. Per un paio di settimane si può anche stare senza la birretta della buonanotte.

succo darancia a djema-el-fna

Le regole del caravanserraglio

E torniamo dunque tra i vicoli dei souk, dove tra un tappeto e l’altro vige una e una sola regola: quella della contrattazione. Noi occidentali siamo abituati ai prezzi fissi, decisi in base a leggi di mercato, alla qualità del prodotto e al costo di produzione. Nei souk marocchini no, il valore di un prodotto non è oggettivo, ma varia in base all’interesse che un cliente mostra nei confronti di un determinato prodotto. Azzardando un’espressione di marketing poetico, potrei dire che nei souk compro un’emozione. E i venditori marocchini sono bravissimi nell’individuare la scintilla di piacere che un oggetto provoca negli occhi di un povero compratore. Io ho provato spesso a fare il disinvolto, ma ogni volta l’oggetto che volevo comprare era sempre il più costoso rispetto a tutti gli altri. E una volta scoperto, non puoi più tornare indietro e inizia la contrattazione, una guerra psicologica a tratti logorante, che finisce poi con l’accordo, stretta di mano e amici come prima.

venditore nel souk di MarrakechTutto ciò fa della contrattazione non tanto un’arte, ma una vera e propria scienza. E mi piace pensare che i grandi guru occidentali del marketing abbiano fatto uno stage nei souk del Marocco, alla ricerca della suprema facoltà del mercanteggiare.

Quando la gola ti frega

È inutile dire che in Marocco si mangia benissimo e a prezzi stracciati. Io mi sono sfondato di cous cous, tajine e bstalh, e poi fiumi di tè alla menta e spremute d’arancia. Nel souk di Fes ho trovato un tipo che faceva una zuppa di aglio e fagioli dentro un calderone stile strega del medioevo a 50 cents a porzione. Viene spontaneo quindi provare qualunque cosa, assaggiare tutto ciò che emani quell’odore di spezie che arieggia per tutta la città.
Vigono però, per noi occidentali, delle leggi non scritte, quali non ingerire l’acqua corrente nemmeno per lavarsi i denti, non mangiare verdure crude, utilizzare solo bicchieri di plastica per bere, ecc ecc. Tutti comportamenti che ti rendono ancora più estraneo al paese che vuoi conoscere. La mia scelta quindi è stata quella di fregarmene altamente, e di provare tutto senza ritegno. Il mio stomaco, però, non ha tardato a farmi sapere la sua opinione.

tajine nel souk di MarrakechPenso che la causa scatenante siano stati dei datteri. Me li ricordo come se fosse ieri. Erano grandi come kiwi, e stavano su una bancarella accanto a un macellaio che esponeva una testa di cammello invasa dalle mosche. Io sapevo che non avrei dovuto mangiarli, sapevo che li avrei dovuti lasciare alle mosche come dolce dopo il cammello. Ma non ce l’ho fatta e li ho comprati. E che dire, erano eccezionali, dolci come una marmellata del discount, densi come il miele di castagno.
E così, un paio di giorni dopo, mentre stavo su un macchinone diretto a Ait-Ben-Haddou, inizia il party di capodanno nel mio intestino. Tra gli invitati anche febbre, mal di testa e debolezza. Posso dire di aver lasciato letteralmente l’anima a Ait-Ben-Haddou. Quando la mia guida mi ha proposto di andare da un guaritore della zona, io ho rifiutato. E ancora oggi me ne pento. Magari mi avrebbe fatto fare un ulteriore passo per abituarmi al Marocco.

ait-benhaddou

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