Come bere un tè e viaggiare nel tempo a Istanbul

È il XIII secolo. Siamo nell’attuale Europa dell’est. L’impero bizantino sta cadendo rovinosamente a pezzi. Le possenti mura di Costantinopoli vengono espugnate dopo quasi mille anni di inviolabilità, e i crociati saccheggiano quella che, all’epoca, era forse la città più ricca del mondo. Un po’ come se si mettessero dei bambini a digiuno da una settimana dentro un negozio di caramelle. Ne segue un lento decadimento che porterà, due secoli dopo, alla completa scomparsa dell’impero.

È l’inizio del XIV secolo. L’Anatolia è occupata dai beilicati turchi, piccoli stati simili agli emirati di oggi. In uno di questi, nella parte occidentale dell’ Anatolia, il principe Osman I, dopo aver mangiato un kebab probabilmente avariato, fa un sogno. Da una mezza luna impressa  nel suo torace vede nascere un albero le cui radici crescono fino al Tigri, all’Eufrate, al Nilo e al Danubio, e i rami fanno ombra alle catene montuose del Caucaso, del Tauro, dell’Atlante e dei Balcani. Questo sogno si rivelerà profetico, tant’è che Osman I sarà il fondatore di uno degli imperi più estesi e duraturi della storia, l’impero ottomano.

Siamo a metà del XIV secolo. Il sultano ottomano Murad I istituisce la pratica del devscirme, una sorta di reclutamento forzato di giovani provenienti dalle terre conquistate dall’impero. Una pratica che al giorno d’oggi definiremmo barbarica, ma che garantisce all’impero manodopera e soldati da addestrare, così da non formare caste interne di militari. I giovani “arruolati”, una volta entrati nel giro, possono far carriera nella corte, entrare a far parte dei giannizzeri o addirittura diventare Gran visir, cioè primo ministro e comandante militare del sultano.

Nel XVI secolo un giovane ragazzo greco viene “reclutato” tra le fila dell’esercito ottomano. Svolge svariate campagne militari prima di riuscire ad entrare nella corte del sultano. Date le sue grandi capacità diventerà, dopo soli due anni, architetto capo dell’impero, e manterrà questa carica per più di cinquant’anni. Verrà considerato un genio al pari dei suoi contemporanei Michelangelo, Raffaello e Leonardo. A lui saranno attribuiti più di trecento edifici, e sarà un grande innovatore dell’architettura islamica. Stiamo ovviamente parlando del grande Mimar Sinan.

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Ad Istanbul avrete due modi di scontrarvi con quello che è stato il genio di Mimar Sinan. Il primo è quello di visitare le opere architettoniche di cui è stato artefice, il secondo è quello di parlare con persone che si vantano di vivere, lavorare o pregare in edifici a lui attribuiti, che siano moschee, hamam o caravanserragli. A mio avviso una delle sue più grandi fortune è stata quella di possedere quel nome perfetto, che gode di una compiutezza formale assoluta. Ogni esperto di marketing vorrebbe arrivare ad un nome simile per il brand a cui sta lavorando. Le sonorità che si esplorano pronunciando la locuzione “Mimar Sinan” sono a ridosso della musica alta, con quella rima appena accennata,  le vocali che si inseguono simmetricamente e le consonanti che passano da suoni nasali a suoni più decisi fino tornare al timbro nasale di partenza. Un assonanza perfetta.

Ho sperimentato la potenza del suo nome sulla mia stessa memoria. Non ricordo bene chi sia l’architetto che ha costruito la moschea blu di Sultanahmet, ma so per certo di chi è stato allievo: di Mimar Sinan.

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L’opera architettonica più imponente di Sinan ad Istanbul è la moschea di Solimano il magnifico. Ma non vi parlerò della grandezza della sua cupola né delle sue fini decorazioni, non vi spiegherò il simbolismo che sta dietro ai suoi quattro minareti né vi descriverò la bellezza dei piccoli mausolei adiacenti alla moschea, perché in questo complesso, in un caldo agosto del XXI secolo, ho scoperto il più bel tea garden di Istanbul.

Nel Lale chai bachesi, questo è il suo nome, puoi bere un bel tè nero, fumare il narghilè e stare in compagnia degli studenti universitari che lo frequentano. Insomma, le cose che puoi fare quasi dappertutto ad Istanbul, niente kebab gourmet o tè provenienti dalle piantagioni bio laledell’Assam. Ciò che lo rende veramente speciale, in realtà, è il posto in cui è situato, ovvero un cortile quadrangolare incassato sotto il piano stradale, dove il suono della fontana al centro del patio rimbomba sui muri circostanti da secoli, le piante intorno alla fontana seguono silenziose le stagioni e, non ultimo in fatto di importanza, è stato progettato da Mimar Sinan.

Ma non è tutto. Perché un luogo non rimane impresso nella memoria soltanto per la sua bellezza o per le sue caratteristiche estetiche. Molto spesso lo ricordiamo perché legato ad un fatto significativo della nostra vita, magari un evento inaspettato che solo in quel particolare contesto manifesta tutta la sua portata. Io ricorderò sempre il lale chai bachesi perché lì, mentre sorseggiavo un tè nero ascoltando il suono costante della fontana, ho conosciuto Ahmet.

Ahmet per me è stato uno svelatore di segreti, quel personaggio che arriva alla fine del film e ti spiega tutte le trame e sottotrame rimaste irrisolte. Una specie di deus ex machina.

Si è avvicinato a me con grande sicurezza, si è seduto al mio tavolo e ha iniziato a parlare. Dopo il terzo tè che mi ha offerto, ordinandolo con autorità ad un cameriere, ho capito che era il padrone del lale chai bachesi. Al quinto tè ho iniziato ad avere dei piccoli spasmi muscolari, tic facciali e tremarella alla gamba destra. Al settimo ho iniziato a delirare, mi vedevo in terza persona, fondavo un impero, rastrellavo i giovani dei territori conquistati e li mettevo a giocare nella squadra di calcio della capitale.

Ahmet mi ha spiegato che Maometto ha 201 epiteti e Allah ha 99 nomi. Quasi tutti i nomi dei musulmani derivano da questi epiteti, tra cui il più gettonato è Mohammed, che in turco diventa Mehmet. Ecco perché il 90% dei turchi che ho conosciuto si chiamava Mehmet.

Ahmet mi ha rivelato il senso della tradizione del tè, Turkish_teache viene bevuto sempre dai tipici bicchieri a forma di tulipano. Quest’ultimo è  il simbolo della Turchia, e la parola araba che sta per Allah assomiglia ad un tulipano. Quindi bere il tè in quel bicchiere vuol dire partecipare ad un rito di appartenenza, che riunisce i partecipanti nel mondo terreno e ultraterreno, crea un legame profondo che si rinnova bicchiere dopo bicchiere. Ecco perché un tè non si rifiuta mai.

Ahmet mi ha raccontato che il backgammon, sebbene sia solo un gioco, è in realtà la perfetta metafora della vita, in cui opera sia la strategia che la fortuna, e mi ha anche detto che secondo lui la società umana deve assolutamente avere una struttura piramidale. Una sola persona deve stare nel vertice alto, e quelle alla base devono ricevere le sue emanazioni. La democrazia non funziona. Se comandano tutti allora non comanda nessuno.

Inoltre Ahmet mi ha fatto ascoltare attentamente il suono ininterrotto della fontanaal centro del cortile. Lo stesso suono lo ascoltavano i malati che si andavano a curare nell’ospedale del complesso della moschea. Il ritmo dell’acqua, incessante ma quieto allo stesso tempo, aveva un effetto terapeutico su di loro.

Ma soprattutto Ahmet mi ha fatto scoprire una nuova dimensione temporale relativa al viaggio, in cui puoi stare un pomeriggio intero ad ascoltare una fontana, a sorseggiare un tè dopo l’altro giocando a backgammon, a fumare narghilè mentre si discute sull’assurdità dell’esistenza, e non sentire il tempo che scorre.

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Dimenticavo che Ahmet si è più volte vantato di possedere un giardino da tè progettato da Mimar Sinan.

 

 

 

Lo ammetto, alcune immagini pubblicate in questo articolo sono state prese da internet. Se ho violato i diritti d’autore non uccidetemi, ma mandatemi una mail a info@stampingtheworld.com e le rimuoverò subito!

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